giovedì 27 dicembre 2007

IL MITO DELL'ISTRUZIONE



Intervista di David Cayley tratta dal libro Conversazioni con Ivan Illich (Ivan Illich in Conversation, 1988); Elèuthera, 2003

Come è nato Deschooling Society (Descolarizzare la società)? Inizialmente avevi fiducia nella struttura scolastica tradizionale?

No, ho sempre ritenuto che la scuola rispondesse alle esigenze di altri. Sono cresciuto senza una educazione scolastica formale. A sei anni, quando le lingue che conoscevo erano il francese, l'italiano e il tedesco, mia madre voleva iscrivermi a una scuola di Vienna, una scuola molto buona dove per i bambini era già in uso la pratica dei test. E questi decretarono che ero un bambino ritardato. Il che fu per me un grande vantaggio perché così potei stare per due anni nella biblioteca di mia nonna, leggere i suoi romanzi e cercare nei dizionari tutte quelle cose interessanti che possono eccitare la curiosità di un bambino dispettoso di sette anni. A scuola sono andato, ma a intervalli irregolari. Quando avevo otto anni, per esempio, venne improvvisamente deciso che avrei dovuto imparare il serbo-croato per prepararmi a un esame che mi avrebbe consentito di andare a scuola in Yugoslavia, dove mio padre aveva un qualche incarico ufficiale. Così imparai la lingua da un professore, un certo Ivanovich, che m'insegnò cose molto interessanti sulle modalità iterative e re-iterative del serbo-croato. In realtà non ho mai imparato a parlare la lingua, ma alla fine fui più o meno pronto per andare a scuola.

Non ho mai preso seriamente la scuola. Di fatto tutto quello che ho imparato l'ho imparato fuori dalla scuola. Ma in effetti non mi ero mai posto il problema della scolarizzarione. Solo nel 1956, quando mi ritrovai improvvisamente vice-rettore dell'Università Cattolica di Ponce a Puerto Rico e, a un anno di distanza, membro del Consejo Superior de Enseñanza (Consiglio Superiore dell'Istruzione), che sovrintendeva a tutti i livelli, dalle università fino alle scuole elementari, non potei fare a meno di chiedermi: cos'è tutta questa struttura creata intorno all'istruzione? Fino a quel momento non ci avevo mai riflettuto seriamente e mi ci vollero poi quasi dieci anni. Quando ci siamo incontrati erano circa dieci anni che stavo cercando di decifrare il significato dell'intera cosa.

E come sei giunto alla conclusione che non aveva alcun senso?

Dapprima pensai che fosse strutturata in modo ingiusto perché costringeva la gente ad andare a scuola e di lì cominciai a riflettere se avesse o meno un qualche senso. In questa direzione l'incontro con Everett Reimer ebbe per me una grande importanza. Di quindici anni più vecchio di me, all'epoca - 1956 - Everett era presidente della Human Resources Planning Commission. Lo incontrai a una riunione con operatori d'alto livello su come pianificare un progetto educativo. Le bottiglie vengono progettate. Le confezioni per i reggiseni vengono progettate. Come progettare il sistema educativo e come coinvolgere le università nella realizzazione di quel progetto erano le questioni all'ordine del giorno.

Gran parte della mia vita è in realtà il risultato dell'avere incontrato la persona giusta al momento giusto e dell' esserne diventato amico. Con Everett andò esattamente così. Tuttavia rimasi confuso dal termine da lui utilizzato, planning, pianificazione, una parola che non avevo mai utilizzato in precedenza. Controllai sui dizionari e non la trovai. La prima volta che apparve sui dizionari fu dopo la seconda guerra mondiale. Un altro termine inconsueto era "risorse umane". Come trasformare gli esseri umani - quei jibaritos portoricani con i quali trattavo - in risorse umane?

Mi ricordo che in occasione del mio successivo viaggio a New York ero andato a Princeton per vedere Jacques Maritain, che all'epoca viveva lì. Ci eravamo incontrati a Roma in un seminario ed era diventato un caro amico e un prezioso consigliere. Il suo fantasioso tomismo significò molto per me. A quel tempo era un uomo anziano con una faccia, come disse una volta Ann Freemantle, ritagliata da una vetrata di Chartres[1]. Lo avevo visto diverse volte negli Stati Uniti perché quando soffrì di un attacco di cuore, ebbi l'onore di sostituirlo in un seminario che teneva sul de ente et essentia di san Tommaso. Nel 1957, mi ritrovai di nuovo seduto lì con lui. Teneva in mano una tazza di tè che stava mescolando con un cucchiaino quando gli parlai della questione che mi angustiava, e cioè che in tutta la sua filosofia non avevo trovato alcuna possibilità di accesso al concetto di pianificazione. Lui mi chiese se si trattasse di una parola inglese per indicare la contabilità, e io gli risposi di no... provò con ingegneria, e risposi ancora di no... poi a un certo punto mi disse: "Ah! Je comprends, mon cher ami, maintenant je comprends". Adesso finalmente ho capito. "C'est une nouvelle espèce du péché de présomption". Il termine pianificazione indica una nuova varietà del peccato di presunzione.

Fu lungo questa sorta di percorso a ostacoli che giunsi a comprendere come funzionava il sistema educativo a Puerto Rico. Per cominciare, grazie alle lunghe conversazioni con Everett, potei approfondire la mia conoscenza dei pragmatisti e degli empiristi della tradizione filosofica inglese. Poi mi domandai: che succederebbe alla scuola se si mettesse tra parentesi la sua pretesa di educare? Forse soltanto in quel modo sarei riuscito a scoprire la sua funzione. All'epoca c'era già a disposizione una macchina che chiamavano computer. Non aveva niente a che vedere con quelli che usiamo oggi, tuttavia poteva già immagazzinare i cosiddetti dati e organizzarli. Potevo dunque richiedere dei dati. Quando esaminai i tabulati, risultò piuttosto evidente che dopo dieci anni di intenso sviluppo -un'altra di quelle parole! - del sistema scolastico di un Paese che, insieme a Israele, in quel momento era considerato la vetrina dello sviluppo a livello mondiale, la scolarizzazione a Puerto Rico era organizzata in modo tale che la metà degli studenti - quella metà che proveniva dalle famiglie più povere - aveva una possibilità su tre di portare a termine i cinque anni di istruzione elementare, cioè quelli obbligatori per legge.

Gran parte della discussione che si svolgeva intorno a me riguardava l'innalzamento immediato degli anni della scuola dell'obbligo. Nessuno sembrava voler fare i conti con il fatto che la scolarizzazione serviva, almeno a Puerto Rico, a consolidare l'originaria povertà della metà dei bambini con un nuovo, interiorizzato, senso di colpa per non avercela fatta. Sono così arrivato alla conclusione che le scuole finiscono inevitabilmente per essere un sistema che produce emarginati, anzi più emarginati che integrati. E dato che la scuola offre sedici, diciotto, diciannove anni di carriera scolastica e non chiude la porta in faccia a nessuno, non potrà che produrre un numero limitato di successi e una netta preponderanza di fallimenti. Nelle menti delle persone che le finanziavano e le progettavano, le scuole avrebbero dovuto incrementare l'uguaglianza. In realtà scoprii che funzionavano come una sorta di lotteria dove quelli che non ce la facevano non perdevano soltanto ciò per cui avevano pagato, ma rimanevano anche segnati per il resto della loro vita come individui inferiori.

Proprio questo mi aveva colpito quando insegnavo nel sistema scolastico del Sarawak nella Malesia orientale. A quel tempo in Malesia il numero di quelli che riuscivano a frequentare l'università, a Mosca o nella British Columbia, era ridottissimo. Eppure tutti s'iscrivevano alle elementari e l'aspirazione era quella di ottenere almeno un diploma di scuola secondaria. Non faccio perciò alcuna fatica a riconoscere che quella piramide straordinariamente ripida costituiva una sorta di giustificazione logica per il fallimento.

Non credi che ormai bisogna essere un po' ottenebrati, stupidi, o comunque intrappolati nei propri sogni sulla società per non vedere queste cose? All'epoca tale riflessione suscitava nella gente una certa sorpresa. Oggi non posso sorprendere più nessuno perché è diventata un'evidenza invariata nel tempo. Penso che l'idea di una scolarizzazione che garantisca l'istruzione sia tramontata nel corso degli anni Settanta, ma negli anni Sessanta e in particolare negli anni Cinquanta, quando sollevavi questo problema venivi trattato davvero come un farabutto, un criminale. Le cose sono cambiate.

Ma sono cambiate in modo strano. Nei primi anni Settanta, quando le tue riflessioni sulla scolarizzazione sono state abbastanza di moda, sembrava che fossero tutti d'accordo con te... Ma a quindici anni di distanza...

Non è cambiato nulla.

Be', qualcosa probabilmente è cambiato, ma non in direzione della descolarizzazione.

Ma la descolarizzazione che intendevo io era la separazione della scuola. Non ho mai voluto abolire le scuole. Ho semplicemente detto: viviamo sotto la Costituzione americana - parlavo agli americani - e nella Costituzione americana avete sviluppato il concetto di separazione delle Chiese. La separazione implica il non ricevere denaro pubblico e quando ho parlato di separazione della scuola la intendevo in questo senso. La mia proposta era che invece di finanziare le scuole, ci si spingesse un po' più in là di quanto si era fatto con la religione, obbligandole a pagare le tasse, così che la scolarizzazione potesse diventare un oggetto di lusso ed essere riconosciuta come tale. In quel modo la discriminazione provocata dalla mancanza di scolarizzazione non avrebbe quantomeno più avuto l'avallo della legge, al pari delle discriminazioni di razza o sesso che erano ormai considerate illegali.

Nella richiesta di descolarizzazione e nell'utilizzo del linguaggio che storicamente è stato impiegato per separare Stato e Chiesa, finisci implicitamente per affermare che la scolarizzazione è in effetti divenuta una nuova forma di religione obbligatoria.

Forse dovrei spiegare come sono arrivato alla mia analisi sulla scolarizzazione. Ti ho detto come ci sono arrivato dal punto di vista pratico: ero responsabile e presiedevo alle decisioni più importanti in materia di istruzione per quanto riguardava la legislazione di Puerto Rico. Così ero costretto a riflettere sul da farsi. E mi sembrava abbastanza chiaro che mi trovavo ad agire in un contesto che appariva ridicolmente simile a quello religioso. Così cominciai a parlare intuitivamente della separazione dell'educazione scolastica. In seguito ne ho fatto un punto centrale, trattando in effetti il sistema scolastico come una continuazione del sistema della Chiesa cristiana nella cultura occidentale.

Quando studiavo teologia, la materia che preferivo era ecclesiologia, che è poi lo studio scientifico, avviato a partire dal IV secolo, di quella particolare comunità che la Chiesa concepisce come suo ideale. Si tratta del primo tentativo di studiare un fenomeno sociale che non è lo Stato, né la legge in quanto tali. L'ecclesiologia, quindi, può essere considerata, in modo provocatorio ma molto rigoroso, come il predecessore della sociologia, un predecessore che però ha una tradizione venti volte più lunga di quella della sociologia come la conosciamo a partire da Durkheim. Ora, io ero molto interessato alle tradizioni e alle dispute attorno a questo fenomeno, che in realtà si riscontra soltanto nella cultura occidentale: una comunità che afferma di essere onnicomprensiva, universale, come lo Stato, e che pure pretende di essere indipendente da esso.

Ero interessato a questo fenomeno da un punto di vista davvero particolare. All'interno dell'ecclesiologia c'è una branca speciale - che conoscono pochissime persone - chiamata liturgia. Ora, la liturgia può essere lo studio di come le persone cantano in chiesa, ma può anche essere studiata come una disciplina intellettuale con una storia che risale ai padri della Chiesa greca e romana. A cavallo tra il II e il III secolo, questa branca della speculazione intellettuale si occupava del modo in cui i rituali creano quella comunità che poi chiama se stessa Chiesa ed è studiata dalla ecclesiologia.

Quando, sotto l'influenza di Everett Reimer, ho cominciato a occuparmi della fenomenologia della scolarizzazione, per prima cosa mi sono chiesto: cosa sto studiando? Mi è apparso abbastanza evidente che non stavo studiando quello che altri mi avevano prospettato, vale a dire il dispositivo più pratico per impartire un'educazione o creare uguaglianza, in quanto mi accorgevo che la maggior parte delle persone rimaneva stordita da questa procedura; nella sostanza si diceva che era impossibile imparare da soli, se non a rischio di rimanere menomati e inabili. In seguito ho trovato delle prove concrete che essa promuoveva un nuovo tipo di ingiustizia autoinflitta.

Così mi sono detto: definiamo la scolarizzazione come la frequenza obbligatoria di gruppi, con un numero di individui superiore a quindici e inferiore a cinquanta, composti da giovani di una particolare fascia di età e da una persona chiamata insegnante, che ha una scolarizzazione maggiore della loro. E quindi mi sono domandato: che tipo di liturgia viene impiegato in questo caso per generare la convinzione che si tratta di un'impresa sociale che ha una certa autonomia dalla legge?

E la risposta?

La risposta è stata che quella era la fabbricazione di un mito, un rituale mitopoietico. Gluckman, che all'epoca era il mio punto di riferimento, afferma che i rituali sono forme di comportamento che rendono coloro che vi prendono parte ciechi di fronte alla discrepanza esistente tra lo scopo per cui esegui la danza della pioggia e le effettive conseguenze sociali che la danza della pioggia ha[2]. Se la danza della pioggia non sortisce alcun effetto, puoi biasimare te stesso per avere danzato nel modo sbagliato. La scolarizzazione, come ho potuto via via rilevare, è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l'apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l'organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi.

Perciò sono giunto ad analizzare la scolarizzazione come il rituale di fabbricazione di un mito, il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell'invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore - non come bene, ma come valore[3] - e che quindi la concepisce in termini commerciali. Tutto ciò è fondamentale per essere un uomo moderno e vivere nelle assurdità del mondo moderno.

Queste erano osservazioni che facevi sulle scuole degli anni Sessanta. Avrebbero potuto essere valide anche per le scuole di cent'anni prima o si trattava di un fenomeno nuovo?

Sarebbe più semplice per me andare ancora un po' più indietro nel tempo. Di recente ho seguito il lavoro di una persona che stava preparando un'interessante tesi su 120 pietisti che in Germania, alla fine del XVII secolo, scrissero dei diari. Ora, questo ricercatore ha osservato che i pietisti che avevano scritto i diari erano persone molto semplici, ed ha allora fatto qualche ricerca con l'intenzione di scoprire per quanti mesi avessero frequentato la scuola del villaggio. È risultato che, con sole tre eccezioni, per apprendere quello che serviva ai 120 pietisti erano occorsi meno di undici mesi di frequenza. Non erano andati a scuola per ricevere un'istruzione. C'erano andati per imparare a tenere in mano la penna. Posso dire che nel Medio Evo il problema era identico. L'idea di andare a scuola per ricevere un'istruzione si sviluppò molto lentamente. Ho sempre affermato che la svolta si ebbé con Comenius, il quale sosteneva che a tutti va insegnato come fare correttamente ogni cosa evitando così di apprenderla in modo errato fuori della scuola[4].

L'idea che la competenza derivi dall'essere istruiti a fare qualcosa, dal fatto che qualcuno te la insegni, è un'idea che comincia a prendere progressivamente piede a partire dal XVII secolo. In realtà, gli effetti sociali della scolarizzazione di cui parlo diventano possibili a Puerto Rico soltanto quando si afferma il principio della scolarizzazione universale obbligatoria. Non ho nulla contro la scuola! Sono contro la scolarizzazione obbligatoria. Sulla scuola la mia posizione è alquanto diversa. Sono convinto che da sempre le scuole combinano il privilegio per nascita con un nuovo privilegio, ma soltanto quando diventano obbligatorie possono combinare la mancanza di un privilegio per nascita con una discriminazione autoinflitta. Le scuole che si basano su un libero accesso consentono l'individuazione di alcuni specifici obiettivi d'apprendimento che una persona può proporsi di raggiungere. Le scuole obbligatorie - come possiamo vedere in questo momento negli Stati Uniti - creano invece una popolazione inebetita, una popolazione "istruita", una popolazione intellettualmente pretenziosa, come non ne abbiamo mai viste prima. Gli ultimi cinquant'anni d'intensa diffusione della scolarizzazione - in America come in Europa - hanno creato consumatori di televisione.

Viviamo in una strana società nella quale la gente è convinta di agire sulla base di dati empirici. Ma in relazione alla scolarizzazione il dato empirico è piuttosto ovvio e non solo rispetto alla giustizia. A partire dall'eccellente libro di Ivar Berg, The Great Training Robbery, che mi è stato dato da Paul Goodman, sono poi stati elaborati numerosi studi simili. Berg dimostra che non c'è assolutamente alcuna connessione tra le materie che gli individui hanno studiato a scuola e l'efficienza degli stessi nei lavori che richiedono una preparazione in quelle materie. C'è una connessione molto stretta tra la quantità di denaro che è stata spesa per la scolarizzazione di una persona e il reddito totale che nel corso della sua vita questa trarrà dal lavoro, ma non c'è alcuna relazione dimostrabile tra la competenza che si suppone abbia acquisito nella scuola e la sua efficienza sul lavoro.

Così la scolarizzazione è una forma d'investimento di capitale in cui l'utile è proporzionale all'investimento, al di là della competenza.

Sì. Nessuno lo mette in dubbio. È un investimento di capitale, ma è anche una forma di controllo sociale, di stratificazione, è la creazione di una società di classe suddivisa in sedici livelli con un numero sempre minore di emarginati quanto più si sale. Sono queste le cose che allora hanno attratto la mia attenzione. La mia impressione è che, sebbene non sia cambiato molto nell'impegno complessivo della nostra società verso la scolarizzazione, ci sono però migliaia di persone che vedono chiaramente, con sguardo cinico e smaliziato, quello che fa questa istituzione. Oggi, comunque, il mio interesse si appunterebbe su questioni del tutto differenti.

Quando scrivevi su questo argomento, nel 1970, affermavi che le cose sarebbero cambiate e che, quando ciò si fosse verificato, il processo sarebbe stato rapido.

Mi sbagliavo. Almeno per il periodo contemplato, mi sbagliavo. Non pensavo che così tante persone fossero disposte a tollerare un'assurdità simile. Ora che dopo venticinque anni sono tornato negli Stati Uniti e ho di nuovo a che fare con la popolazione studentesca, talvolta la sera sono così triste che faccio fatica ad addormentarmi. Il sistema universitario è diventato come la televisione. C'è un po' di questo e un po' di quello e qualche programma obbligatorio messo insieme in un modo che soltanto chi l'ha progettato può comprenderlo. Il sistema crea studenti perfettamente abituati al fatto che ciò che imparano dev'essere loro insegnato, e che nulla di ciò che viene loro insegnato dev'essere realmente preso sul serio. Non credevo che la gente potesse rimanere moralmente tanto indifferente riguardo a un'ulteriore crescita del sistema scolastico.

La prima persona che mi disse che mi sbagliavo e che ne avrei avuta la dimostrazione fu Wolfgang Sachs[5]. Era un mio studente. In Germania m'incontrai con lui e con un piccolo gruppo di altri studenti, tutti poco più che ventenni, che criticavano gli articoli raccolti in Descolarizzare la società. Sostenevano che fissando la mia attenzione sugli indesiderati effetti collaterali della scolarizzazione obbligatoria, mi era sfuggito il fatto che la funzione educativa stava già emigrando dalle scuole e che, in modo crescente, altre forme di apprendimento obbligatorio sarebbero state istituite nella società moderna.

L 'obbligo non sarebbe più definito per legge, ma verrebbe imposto grazie a trucchi d'altro genere come quello di far credere alle persone che possono imparare qualcosa dalla televisione o di costringerle a frequentare corsi di formazione sul lavoro, o di spingerle a pagare cifre anche considerevoli di denaro allo scopo di apprendere come migliorare il proprio rapporto con gli altri, come essere maggiormente sensibili, come saperne di più sulle vitamine di cui abbiamo bisogno, come diventare astuti e così via.

Mi fecero capire che la mia critica alla scolarizzazione poteva avere aiutato persone come te a riflettere, ma che stavo andando fuori strada e che avrei piuttosto dovuto chiedere a me stesso: come spiegare il fatto che le società si siano assuefatte - come fosse una droga - all'educazione? Perciò, nel corso degli anni Settanta, la maggior parte del mio pensiero e della mia riflessione si concentrarono sulla questione seguente: come distinguere l'"acquisizione" di un'istruzione dal fatto che la gente ha sempre saputo diverse cose, ha sempre avuto numerose competenze e, quindi, ha sempre imparato qualcosa? Così sono arrivato a definire l'istruzione come "apprendimento basato sul presupposto della scarsità", l'apprendimento basato sul presupposto che gli strumenti per l'acquisizione di qualcosa chiamata conoscenza siano limitati.

A quel punto, però, le mie riflessioni non venivano più considerate sovversive e nessuno, in campo universitario, si è più preso la briga di discuterle. Ho allora cercato di portare la questione all'interno delle associazioni impegnate nella ricerca in campo educativo, ma senza successo. Per esempio, una volta ho avuto l'onore di tenere una conferenza in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione dell'International Association for Educational Research. C'erano migliaia di persone e li ho implorati dicendo: "Sentite! Ciò di cui abbiamo realmente bisogno è uno studio sull'origine dell'idea di educazione, di apprendimento basato sul presupposto della scarsità". Dopo anni ho potuto vedere solamente qualche abbozzo di risposta qua e là.

Questa è stata la seconda fase in tema di scolarizzazione: la consapevolezza - attraverso Sachs e il suo gruppo - che la questione primaria non era la scolarizzazione ma l'essere prigionieri dell'idea stessa di educazione, il che ha comportato l'analisi degli effetti collaterali indesiderati di tutte le forme di educazione adulta. Sono poi giunto alla terza fase, ovvero al riconoscimento che l'educazione doveva essere intesa come apprendimento basato sul presupposto della scarsità. Da lì mi sono progressivamente spostato verso il mio attuale progetto, che a partire dalla metà degli anni Settanta è diventato quello di scrivere una storia della percezione della scarsità.

Sono partito dalla seguente domanda: quali sono le condizioni che consentono l'emergere dell'idea stessa di educazione? Non puoi avere un'idea moderna di educazione se non credi che in essa risieda la conoscenza; conoscenza che può essere confezionata, definita, espressione di un valore che può essere fatto proprio. Così ho cominciato a occuparmi del contesto mentale, dello spazio in cui i concetti con i quali costruiamo la nozione di educazione possono prendere forma.

In Limits to Medicine sottolinei che se la tua critica della medicina viene presa come un attacco ai medici, il risultato potrà essere analogo a quello che si era già verificato in materia di descolarizzazione. Intendevi dire che poiché il tuo era stato scambiato per un attacco alla scuola, in realtà era servito a quest'ultima per consolidare ulteriormente se stessa come una sorta di aula universale?

Esatto.

Ed è questo che ritieni di non avere individuato all'epoca in cui hai pubblicato Descolarizzare la società?

Quando ho scritto l'articolo intitolato The Futility or Schooling in Latin America, pubblicato su "The Saturday Review", non me ne rendevo conto. Tre anni dopo, sei miei articoli sono stati pubblicati insieme con il titolo Descolarizzare la società. Il dattiloscritto era rimasto per nove mesi alla Harper, perché un buon libro richiede un periodo di gestazione di nove mesi. Durante l'ultimo mese, quello precedente l'uscita, ho improvvisamente compreso gli indesiderati effetti collaterali che la pubblicazione del mio libro poteva favorire. Così sono andato dal direttore della "Saturday Review", Norman Cousins, amico del mio amico Erich Fromm[6], e gli ho detto: "Norman, non saresti così gentile da consentirmi di pubblicare un articolo il mese prossimo?". "Certo" mi ha risposto, "ma solo se lo scrivi in modo tale che ci consenta di utilizzarlo come articolo di fondo".

Così ho scritto un articolo nel quale in sostanza spiegavo che non ci sarebbe stato niente di peggio che credere che considerassi le scuole il solo strumento per creare, stabilire e consolidare negli animi il mito dell'istruzione. Ci sono numerosi altri modi con i quali possiamo trasformare il mondo in un'aula universale. E Cousins è stato così gentile da consentirmi di pubblicare quella che considero la critica più importante al mio libro.

Sono state molte le critiche ricevute da Descolarizzare la società. Mi ricordo quella di Herb Gintis, apparsa sulla "Harvard Educational Review", che credo esemplifichi una critica marxista al tuo lavoro[7]. Più tardi Vicente Navarro ha assunto una posizione molto simile nei confronti di Limits to Medicine[8]. Gintis sosteneva che hai considerato la scolarizzazione in termini di assuefazione, o di iniziazione al mito del consumo infinito, ma hai trascurato il suo ruolo centrale nel sistema produttivo, hai trascurato il fatto che è uno specchio del sistema produttivo. Secondo lui, tu hai reso le persone responsabili della propria descolarizzazione quando in realtà si stanno comportando razionalmente e in modo appropriato all'interno del sistema nel suo insieme, e di conseguenza finisci per trasmettere loro un messaggio di disperazione. Dato che la scuola è intrinseca al sistema, afferma, se non riescono a trasformare il sistema non possono nemmeno descolarizzarlo.

Non ho mai risposto a Gintis, ma ho risposto a Navarro quando mi ha fatto la stessa obiezione a proposito della sanità, aggiungendo una nota in calce alla seconda edizione di MedicaI Nemesis (Nemesi medica). Lì dicevo: "Navarro mi accusa di avere presentato proposte in campo sanitario che negano al povero il diritto al danno iatrogeno. Lui invece vuole distribuire in parti uguali il danno iatrogeno". A Gintis avrei detto: "Voi siete preoccupati perché la parte più povera degli americani" - all'epoca i neri e i portoricani dei ghetti - "non ha una scolarizzazione sufficiente per capire cos'è meglio per lei e così rimane indipendente. La gente più povera viene emarginata dalla scuola prima che possa cadere nelle vostre mani e sentirsi dire che voi sapete cos'è meglio per lei".

Ma di critiche ne ho ricevute a centinaia. John Ohliger ha raccolto tre volumi di citazioni tratte da queste critiche e dalle discussioni sollevate[9]. E in mezzo a tutto ciò non è stata rivolta alcuna attenzione agli unici due capitoli che desideravo venissero discussi: The Ritualization or Progress e The Rebirth of Epimethean Man.

Nel tuo libro Gender and Sex (Il genere e il sesso) affermi che non avresti potuto scrivere quel libro, né Descolarizzare la società, senza il lavoro di Philippe Ariès[10].

Ariès è l'unica persona che cito in Descolarizzare la società. È attraverso Ariès che sono stato introdotto alla storicità della percezione del bambino. Probabilmente sono rimasto affascinato da Ariès perché ho sempre provato fastidio quando i figli dei miei amici assumevano un atteggiamento riassumibile nella frase: Sono un bambino e devi prestarmi attenzione. È da quando ho compiuto quindici anni che rifiuto di interessarmi o di avere qualunque tipo di relazione con persone simili. Alcuni dei miei amici, dei miei migliori amici, amici di famiglia, mi hanno considerato per tutta la vita un bruto. Tuttavia diverse volte è accaduta una cosa interessante: quando questi ragazzi avevano difficoltà con i loro genitori, si presentavano improvvisamente alla porta di casa mia (questo accadeva quando avevano quattordici-quindici anni). In due casi vennero a cercare rifugio addirittura in un altro continente.

A mio avviso, una delle cose più dannose che fa la società moderna è produrre figli in questo senso specificamente moderno. Quand'ero giovane, decisi che io non l'avrei fatto e fu quella la ragione per cui a dodici anni presi la decisione di non sposarmi.

In seguito, ho del tutto respinto l'idea dell'infanzia e in particolare del bambino bisognoso del XIX secolo. Ariès mi ha fatto capire che il bambino come l'intendiamo noi è una invenzione moderna. E poi Ariès, con i suoi articoli sulla morte, mi ha aiutato moltissimo nella scrittura di Nemesi medica.

Una volta, quando non avevo ancora pubblicato Nemesi medica, mi trovavo a Parigi per un giorno e mezzo e lì m'incontrai con Valentina Borremans[11]. Le domandai: "Chi desideri vedere?". E lei mi rispose: "Be', se abbiamo a disposizione soltanto un pranzo e una cena, Sartre e Ariès". "Chi per primo?". "Ariès". Così presi il telefono e chiamai: "Monsieur Ariès?.. Ivan Illich". Silenzio assoluto. Poi un freddo: "Sì?". Allora dissi: "Sarei molto lieto di incontrarla e si tratta di un'occasione speciale. C'è con me una signora che credo lei avrà piacere di conoscere e che desidera fare la sua conoscenza". "D'accordo, vediamoci". Così c'incontrammo in un piccolo ristorante. Fui fortunato e scelsi il ristorante giusto, quello in cui sapevo che si poteva prendere una bottiglia di Cahors da un litro. Ordinammo tre di queste bottiglie.

Quando arrivammo alla fine del pranzo, dopo tre litri di Cahors, gli chiesi: "Quando vedremo finalmente pubblicati in un libro questi articoli?". Mi rispose: "Be', fra diciassette anni, credo". Lo incalzai: "Arlès, quanti anni ha?". Mi disse la sua età. E io ribattei: "Lei non crede alla morte!". Così quello stesso giorno uscimmo dal piccolo Zinc e ci dirigemmo verso gli uffici della casa editrice Seuil, dove lui prese accordi per la pubblicazione del suo grande libro sulla morte. In seguito, nel 1982, mi succedette alla presidenza dell'Istituto di Studi Superiori di Berlino. Nel 1983 sua moglie morì di tumore e io andai a stare da lui per un po' di giorni, per evitare che rimanesse solo nel loro appartamento.

Dicevi che a dodici anni eri giunto alla conclusione di non avere figli.

Ricordo con precisione. Camminavo attraverso i vigneti che circondano Vienna. Sapevo che entro pochi giorni Hitler avrebbe occupato l'Austria e riflettevo tra me e me che, essendo quella la situazione, sarebbero accadute cose che mi avrebbero reso impossibile dare dei figli alle torri, laggiù, dell'isola dalmata dove i miei nonni e i miei bisnonni avevano messo al mondo i propri figli.

Allora non intendevi dire semplicemente che la moderna istituzione dell'infanzia - che produce questi figli lagnosi - è così sgradevole che hai preferito non averci nulla a che fare... ?

No, intendevo anche che, dalla mia parte non ebrea, ero stato abituato all'idea che un figlio è un dono fatto alla famiglia e mi accorgevo che questo per me non sarebbe stato possibile.

Si trattava allora di una riflessione che riguardava il destino dell'Europa, e del mondo, e non soltanto l'istituzione dell'infanzia?

Sì, ma è grazie ad Ariès che ho imparato a vedere la ragione per cui è straordinario, sorprendente, che ci si chiami ancora umani e ci si consideri ancora discendenti della storia. Fino all'anno scorso non ci avevo mai pensato. Ma ad un certo punto mi è capitato di dover spiegare a qualcuno il significato di una curva esponenziale, per cui l'area sottesa all'ultimo periodo di raddoppio è pari a quella di tutti i precedenti periodi di raddoppio. In seguito, me ne stavo seduto nel bel mezzo di un mercato messicano il Giorno dei Morti. Si tratta di una festa durante la quale vengono costruite piramidi di teschi di zucchero che poi si usa dare ai propri superiori con su inciso il loro nome. In quella ricorrenza, al proprio capo si può dire quello che si vuole, lo si può rimbrottare, e lui non può arrabbiarsi con nessuno. Ad ogni modo, c'erano quei teschi e tantissimi fiori colorati e la gente che si accalcava, e con la mia fantasia ho cominciato a vedere che anche i morti passeggiavano per il mercato. E allora mi sono domandato: come mai ce ne sono così pochi? Avrebbero dovuto essere molti di più. E cominciai a riflettere che nel periodo nel quale ero vissuto - a partire dal 1926 - erano nate e morte più persone che in tutta la storia precedente considerata nel suo insieme. E improvvisamente ho provato l'acuta sensazione, non statistica ma empirica, di quanto sia unico il periodo nel quale vivo e parlo.

Fonte: David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich (Ivan Illich in Conversation); Elèuthera, 2003.



[1] Ann Freemantle è una scrittrice americana amica di vecchia data di Illich.

[2] Max Gluckman, Essays on the Ritual or Social Relations, Manchester University Press, 1962 (trad. it.: Potere, diritto e rituale nelle società tribali, Bollati Boringhieri, 1977).

[3] La distinzione tra valori e beni viene approfondita in modo più esteso nel capitolo V.

[4] Si tratta di Jan Amos Komensky, 1592-1670, vescovo moravo e innovativo riformatore nel campo dell'educazione.

[5] Wolfgang Sachs, amico e collaboratore stretto di Illich, ora insegna all'Istituto per gli studi culturali di Essen. Vedi The Development Dictionary, cit.; For Love of the Automobile: Looking Back into the History of Our Desires, University of California Press, Berkeley, 1992; The Archeology of the Development Idea, "Interculture", 23, n. 4, autunno 1990.

[6] Erich Fromm, scomparso nel 1980, fu grande amico di Illich e suo vicino a Cuernavaca. Vedi Escape from Freedom, Farrar and Rhinehart, NewYork, 1941 (trad. it.: Fuga dalla libertà, Mondadori, 1987); Man for Himself, Rhinehart, New York, 1947 (trad. it.: Dalla parte dell'uomo, Astrolabio); The Art of Loving, Harper and Row, NewYork, 1956 (trad. it.: L'arte di amare, Mondadori, 1991). Ha anche scritto l'introduzione al libro di Illich, Celebration of Awareness, Doubleday, New York, 1969 (trad. it.: Rovesciare le istituzioni, Armando, 1973).

[7] Herbert Gintis, Towards a Political Economy of Education: A Radical Critique of Ivan Illich's Deschooling Society, "Harvard Educational Review", 42, n. 1, febbraio 1972.

[8] Vicente Navarro, Medicine Under Capitalism, PRODIST, NewYork, 1976, pp. 103-131 (trad. it.: La Medicina nel capitalismo, Feltrinelli, 1980).

[9] John Ohliger e Colleen McCarthy, Lifelong Learning or Lifelong Schooling? A Tentative View of the ldeas of Ivan Illich with a Quotational Bibliography, Syracuse University Publications in Continuing Education, Syracuse, N.Y., 1971. John Ohliger, Bibliography of Comments on the Illich-Reimer Deschooling Theses (ERIC ED 090 145).

[10] Philippe Ariès, Centuries of Childhood: A Social History of Family Life, Knopf, New York, 1962 (trad. it.: Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza, 1991); The Hour of Our Death, Random House, New York, 1981 (trad. it.: L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Laterza, 1985).

[11] Valentina Borremans era la direttrice del Centro Interculturale di Documentazione (CIDOC).

Link: http://www.altraofficina.it/ivanillich/Articoli/mito%20istruzione.htm

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